L'elemosina di san Martino


Scultore lombardo, attivo nella prima metà del XIV secolo
L’ELEMOSINA DI SAN MARTINO, primo quarto del XIV secolo
pietra, cm 195 x 215 x 45
Iscrizione sulla lama, metallica, della spada di San Martino: “vive le r[oy]”

San Martino, sul suo robusto destriero incedente, vestito in abiti cavallereschi, si rivolge all’umile viandante incrociato per la via, rimasto ormai alle sue spalle, ruotando drasticamente il busto e,  sguainata la spada, gli offre un pezzo del mantello che lo avvolge. Il povero, ritratto nudo, salvo che per un paio di ridotte mutande, stringeva in origine con la sinistra un lembo del drappo, tentando di coprirsi; il bastone in legno che tiene oggi nella mano mancina è stato aggiunto in occasione di un ripristino che ha evidentemente frainteso il gesto originario. Il grande altorilievo lapideo presenta numerose lacune, rotture, rifacimenti (risalenti a momenti diversi della storia dell’opera), dissimulati da una spessa patina grigia stesa allo scopo di uniformare la materia e che finisce oltretutto per occultare il colore autentico, più caldo e giallastro, della pietra: manca la mano destra del povero, un pezzo del suo orecchio sinistro, mentre sono grossolanamente rifatti buona parte della base, lo zoccolo anteriore sinistro del cavallo, quasi tutta la gamba anteriore destra dell’animale, un brano delle briglie, lo stinco sinistro del mendico e la sua gamba destra. Quest’ultimo intervento è particolarmente fuorviante, dal momento che snatura l’anatomia del pover’uomo, rendendone implausibile la posa.
Le numerose fratture e i replicati restauri sono l’indizio della storia travagliata, dei numerosi spostamenti subiti dal gruppo monumentale. Al Centro Civico Culturale giunse nel 1979, proveniente dal portico del Palazzo Comunale (dove oggi ve n’è una copia moderna). Prima di approdare al loggiato del Comune trovava posto all’ingresso della principale chiesa di Treviglio, dedicata a San Martino, di probabile fondazione altomedievale (di un’origine pre-romanica, su cui insistono le più antiche fonti trevigliesi, a partire da Emanuele Lodi, non si individua in realtà alcuna traccia), ma completamente ricostruita una prima volta in età gotica, poi ancora rimaneggiata e ampliata tra Quattro e Cinquecento, adeguata alle esigenze controriformistiche tra sesto e settimo decennio del Cinquecento, e rinnovata infine un’ultima volta nel corso del Settecento. Una visita pastorale dei primi anni del Seicento descrive la scultura sopra l’architrave della porta principale dell’edificio, per il resto di forme moderne, “cum columnis lapideis, et suis basibus, capitellis, et epistiliis” (Rossi, 1987, p. 47 nota 8). Sempre in cima al portale centrale della facciata di San Martino la ricorda qualche decennio più tardi (e precisamente nel 1647) anche Lodi (p. 111). È da pensare che nel momento in cui la chiesa medievale veniva rinnovata, istanze devozionali suggerissero la premura di conservare l’ormai obsoleto rilievo gotico. Non mi pare infatti che vi siano argomenti sufficienti per accreditare l’ipotesi di un’originaria destinazione sul lato principale del campanile maggiore, dove pure fanno vistosa mostra di sé due robuste mensole marmoree.
Non si capisce in vero per quale motivo (e quando) lo si sarebbe spostato sul nuovo portale, costruito attorno al 1559, come indica l’iscrizione sul prospetto (Camerone 1735, p. 27; G. Rizzo, Vicende architettoniche del XVI secolo, in La basilica di S. Martino e S. Maria Assunta in Treviglio, Treviglio, 1987, p. 51). E se d’altronde fosse da tener per buona l’ipotesi che la torre campanaria venisse costruita nella seconda metà del Trecento (Rizzo, 1987, p. 30), una soluzione in tal senso risulterebbe ancor più improbabile per il fatto che, come si vedrà, la nostra scultura, per ragioni di stile e di cultura, va datata assai prima, entro il primo quarto del secolo. Dal suo antico alloggio il grande rilievo raffigurante l’Elemosina di San Martino deve esser stato rimosso in occasione del rifacimento della facciata in forme barocche. Il progetto architettonico, dovuto a Giovanni Ruggeri e risalente al 1722, prevedeva in realtà di conservare il portale cinquecentesco, sul cui cornicione poggiava il nostro gruppo equestre; eppure nel 1736 lo scultore Antonio Maria Pirovano (che ebbe l’incarico della decorazione plastica della facciata e subentrò di fatto a Ruggeri nella direzione dei lavori), viene pagato per la realizzazione della nicchia destinata a contenere un rilievo di identico soggetto che ancor oggi è visibile al sommo del portale. La storiografia trevigliese (cfr. Santagiuliana, 1965, p. 267, nota 24) è solita ricondurre (in modo del tutto implausibile) il rilievo lapideo di San Martino e il povero un tempo sulla facciata dell’omonima chiesa alla storia più antica dell’edificio che, come asseriva per primo, nella prima metà del Seicento, Emanuele Lodi, sarebbe stato fondato nel 1008; tale data, affermava lo studioso, si sarebbe vista ai suoi giorni incisa in una lapide nel coro (di questa iscrizione oggi non v’è più traccia; cfr. Santagiuliana, 1965, pp. 117-118).
A ricondurre la scultura entro termini cronologici e coordinate culturali più consoni è stato, nel 1944, Costantino Baroni, che ne pubblica aveva una bella foto tra le illustrazioni del suo pionieristico studio dedicato alla Scultura gotica lombarda; il San Martino di Treviglio assume anzi il compito, nel volume dell’allora direttore del Castello Sforzesco di Milano, di avviare la rassegna della plastica di Lombardia in età gotica, apparendo alla tavola numero 2, in un confronto, tipologico più che stilistico, coll’antelamico Oldrado da Tresseno a cavallo del Broletto milanese. Più recentemente si è occupato del monumentale rilievo Francesco Rossi (1987, pp. 39, 41), che conferma una datazione nel corso del Trecento, grosso modo a metà secolo, proponendo un confronto col Sant’Alessandro sul protiro settentrionale di Santa Maria Maggiore a Bergamo (che reca la data 1354 e la firma di Giovanni da Campione). Io credo che le radici culturali dello scultore di Treviglio vadano piuttosto ricercate a Milano, e che la sua attività sia da collocare un poco a monte, nei primi decenni del secolo. I modelli che informano il San Martino trevigliese si riconoscono infatti nell’opera del cosiddetto Maestro della Loggia degli Osii, come lo battezzò Giovanni Previtali a partire da una serie di nove sculture che ornavano appunto (oggi sono sostituite da copie) la milanese Loggia degli Osii (G. Previtali, Una scultura lignea in Lombardia e la Loggia degli Osii, in “Prospettiva”, 1, 1975, pp. 18-24). A quella schiera di figure ad un tempo ruvide e possenti, accese nei volti da un’aspra espressività, rimandano tanto la gestualità lenta e quasi inceppata dei personaggi trevigliesi quanto la nitida definizione dei volumi che ne tornisce le sagome. Il volto pasciuto del giovane cavaliere, dalla forte mascella ed il mento carnoso, richiama subito alla mente l’imberbe Santo Stefano della Loggia, oppure il San Giacomo, che con lui condivide anche l’elegante acconciatura. E allo stesso modo la marcata caratterizzazione espressiva che contraddistingue il mendicante, solcato in viso da rughe profonde, gli occhietti miopi, la barba un po’ incolta, i capelli corti e disordinati che contrastano con le lunghe e pettinatissime chiome del nobile generoso, trovano un rispecchiamento nel vivido Sant’Ambrogio della serie milanese. L’orientamento verso Milano della cultura figurativa trevigliese, della scultura in particolare, dovette rimanere vivo nel corso di tutto il Trecento, e a maggior ragione dopo che, nel 1332, la città, fin da subito favorevole ai Visconti nella lotta per il predominio lombardo di questi contro i Della Torre, si era formalmente offerta ad Azzone. È significativo in tal senso che, nel panorama assai impoverito del Gotico locale, un secondo gruppo lapideo raffigurante San Martino e il povero, ancora conservato nella basilica dedicata al santo, parli di nuovo, sebbene a distanza di diversi decenni, la lingua in voga nella capitale dello Stato. Non si tratta di una scultura monumentale, come quella che stiamo esaminando, né destinata a stare all’aperto, dal momento che il caldo marmo da cui è ricavata conserva la sua pelle liscia e omogenea. Il modellato quasi sdutto, le superfici morbide e levigate, la tenera intonazione psicologica inducono a credere che sia stata modellata nell’atelier di Bonino da Campione, il più ufficiale ed il più autorevole scultore della Milano governata da Bernabò Visconti.
Laura Cavazzini

Commenti

Post popolari in questo blog

Considerazioni sul retro dei quadri

Storie in Museo - Ritratto di Clorinda Sala Mauri

Buon Natale dai Musei Civici di Treviglio